Antonio Catalfamo, poeta e critico letterario, direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta”, ci ha inviato un saggio lungo ed articolato dedicato a un grande barcellonese purtroppo dimenticato: Giovanni Millimaggi, pedagogista, avvocato, antifascista condannato dal regime mussoliniano a parecchi anni di confino e di carcere, comunista libertario. Lo pubblichiamo qui di seguito per diradare la cortina di silenzio che è stata elevata intorno a questo illustre concittadino.
Il revisionismo storico, oggi dominante in Italia, opera subdolamente a vari livelli. Finché può, fa cadere nell’oblio assoluto i personaggi scomodi. Quando ciò non è più possibile, dà un’interpretazione deformante del loro pensiero e della loro azione, cerca di renderli funzionali al sistema, di fagocitarli, di metabolizzarli, attraverso una versione aggiornata di quella che Gramsci ebbe a definire «rivoluzione passiva». Una «rivoluzione senza rivoluzione», che consiste nell’assorbire tutte le spinte innovative, deformandole, privandole della loro carica rivoluzionaria, omologandole al potere e alla sua rete propagandistica, dando vita a quella che proprio Gramsci, con sottile ironia, chiamò «la notte in cui tutti i gatti sembrano bigi», creando un guazzabuglio, un inquinamento linguistico, un caos ideologico, in cui si può dire tutto e il contrario di tutto e il cittadino comune finisce per confondersi, per non capire più nulla, addirittura per rinunziare a capire. Il risultato è il buio totale, l’annichilimento delle coscienze, il nichilismo indotto, il fenomeno dei cervelli all’ammasso.
In questo clima inquinato, possiamo dire che, tutto sommato, Giovanni Millimaggi è stato “fortunato”. L’apparato “culturale” ed “ideologico” del sistema si è accontentato di ignorarlo, forse perché il suo pensiero e la sua azione, così ostili alla logica reazionaria, non sono omologabili ad esso, nella sua fase del «tecnofascismo», secondo la felice definizione di Pasolini, che in essa includeva anche certo antifascismo di comodo e di maniera, pur esso coinvolto nell’opera di omologazione all’ “ideologia” del potere, del capitalismo giunto nella sua fase “matura”, che potrebbe coincidere con la sua fine, oppure protrarsi per secoli, così come avvenne con la crisi dell’impero romano, che durò tanto a lungo da sconfinare nella follia di Caligola, che nominò senatore il proprio cavallo, e in quella di Nerone, che fece incendiare Roma per innalzare il suo canto, con grande sacrificio delle masse popolari.
Le epoche storiche durano finché non si afferma come forza antagonista una classe sociale e politica alternativa a quella imperante. E in questo momento il movimento operaio si trova in una fase di notevole difficoltà che gli impedisce di soppiantare al potere la borghesia, nonostante quest’ultima abbia esaurito la sua spinta propulsiva.
Ora un volume biografico, scritto dal nipote Daniele, dirada finalmente la cortina di silenzio che ha avvolto per decenni la figura di Giovanni Millimaggi. Il titolo è già significativo: Un uomo libero. La storia di Giovanni Millimaggi (Youcanprint, Lecce, 2020). Esso ci permette di ricostruire le varie tappe del pensiero e dell’azione del Nostro.
Giovanni Millimaggi nasce l’11 gennaio 1887 a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, nell’ambito di una famiglia benestante di proprietari terrieri, che, successivamente, si vede costretta, per vicissitudini finanziarie, a cedere i propri possedimenti, diffusi nel comune di Castroreale e in quelli limitrofi, per trasferirsi nel capoluogo. Qui il Nostro inizia l’attività di insegnante elementare e pubblica alcuni articoli di pedagogia su riviste specialistiche. Si accosta al pensiero socialista e collabora a vari periodici locali: «La Provincia socialista», «Germinal», «Il Canonico Mazza», accanto ad autorevoli esponenti del mondo politico e culturale del calibro di Concetto Marchesi, Gaetano Salvemini, Giovanni Pascoli, che ebbero esperienze di insegnamento all’Università di Messina, e Ludovico Fulci, deputato radicale al Parlamento nazionale.
Collabora altresì al periodico anarchico «Il Risveglio», che vanta tra i suoi collaboratori Piero Gori.
Nel 1921, a seguito della scissione di Livorno all’interno del Partito socialista, si avvicina al Partito comunista d’Italia, pur non essendo iscritto, condividendone la prospettiva rivoluzionaria.
Nel 1925 consegue la laurea in Giurisprudenza, presso l’Università di Messina, e inizia a frequentare lo studio dell’avv. Luigi Fulci, docente di Diritto penale nello stesso ateneo. I due sono accomunati da una visione laica d’impronta positivista. Millimaggi si dedica intensamente alla professione di avvocato, ma le forze dell’ordine seguono i suoi movimenti, anche se alcune informative riservate rilevano che per il momento non svolge attività sovversiva, pur conservando le sue idee comuniste.
Il 24 marzo 1930, la Prefettura di Messina segnala che il Nostro si è trasferito a Milano, ove svolge l’attività di legale dell’Istituto Contenzioso Commerciale. A distanza di alcuni mesi, la Prefettura di Milano conferma il trasferimento di Millimaggi nel capoluogo lombardo e sottolinea che, nonostante la persistenza dei suoi ideali politici, non risulta che sia tra i capi del comunismo milanese. In realtà, egli prende contatto con gli ambienti antifascisti. Difatti, l’apparato poliziesco, sempre vigile, nel 1932 rileva il suo attivismo, lo cataloga, questa volta, tra i capi dei comunisti milanesi e riscontra il suo impegno come reclutatore di corrieri tra i fuoriusciti e gli antifascisti rimasti in patria.
Nel 1933, il commissario della Polizia politica, Renzo Mambrini, si infiltra nella rete antifascista clandestina. Riesce ad incontrare Millimaggi spacciandosi probabilmente per un collega avvocato. In una relazione riferisce che il Nostro, nel conversare con lui, utilizza spesso argomentazioni mediocri, finge di avere idee confuse sul comunismo, sospettando la falsa identità del suo interlocutore, ma in realtà è «persona dotata di facile eloquio, di buona cultura giuridica». Il commissario Mambrini lo cataloga, dunque, come «un sovversivo a tendenze comuniste» (p. 49).
Il cerchio della polizia si stringe, dunque, intorno a Giovanni Millimaggi. Si arriva all’epilogo a fine aprile 1933. Da lì a poco scatta la trappola. Egli viene arrestato mentre, assieme ad alcuni compagni, si appresta a fare le prove per una trasmissione radio di propaganda antifascista da effettuarsi in occasione della ricorrenza del Primo Maggio, che il regime fascista aveva abolito come festa dei lavoratori, sostituendola con uno rispolverato e fittizio Natale di Roma, coincidente con la fondazione leggendaria della Capitale, nel 753 a. C. Il discorso celebrativo avrebbe dovuto leggerlo proprio Giovanni Millimaggi. Quest’ultimo, tratto in arresto con gli altri, viene condotto nel carcere milanese di San Vittore e sottoposto a duri interrogatori, in cui viene minacciato di morte con una rivoltella puntata alla tempia, in una sorta di roulette russa. Ma le minacce e le violenze degli aguzzini non piegano la sua fede. Così, con ordinanza della Commissione provinciale del 28 luglio 1933, Millimaggi viene assegnato al confino di Ponza con la seguente motivazione: «Organizzazione comunista: tentativo di impiantare una radio trasmittente per lanciare un messaggio in occasione del 1° maggio» (p. 60).
Giunto a destinazione, viene accompagnato in un camerone, che funge da alloggio per i confinati, in cui sono allineati come giacigli pagliericci infestati da cimici e altri parassiti. Millimaggi, assieme ai compagni, cerca di adattarsi alle condizioni confinarie. Vengono organizzati gruppi di studio, nei quali ognuno tiene lezioni in base alle proprie competenze per materia. Ben presto, però, questa attività viene vietata dalle autorità, perché considerata strumento di diffusione e perfezionamento delle idee sovversive, soprattutto a beneficio dei meno scolarizzati, che avevano l’occasione di formarsi politicamente e culturalmente all’ «università del carcere», secondo la definizione ironica (ed autoironica) di Gian Carlo Pajetta. Anche la richiesta di Millimaggi di dare lezioni private ai bambini del luogo, in quanto già insegnante elementare, viene rifiutata.
Il Nostro prende contatti con i confinati comunisti, organizzati in una struttura politica che a lui sembra troppo rigida: il Comitato Direttivo. In un primo momento viene ammesso ad una struttura collaterale, che raggruppa i «simpatizzanti», ma ben presto si allontana anche da questa, costituendo un gruppo di confinati che, pur vicini al Partito comunista, rivendicano la loro autonomia di giudizio e mantengono aperto il confronto anche con confinati di altre idee politiche, soprattutto di ispirazione anarchica (ma non solo).
In Millimaggi prevale la componente libertaria, che contrassegna la sua visione del comunismo, comportando il ripudio di ogni dogmatismo ideologico e di ogni rigidità organizzativa, imperniata sul concetto di «centralismo democratico». Perciò egli si confronta con dirigenti del Partito comunista italiano del calibro di Giorgio Amendola, ma è geloso della propria autonomia.
Nel febbraio del 1934, Millimaggi ottiene il ricongiungimento della famiglia a Ponza. Egli si rivela ben presto un confinato riottoso, classificato tra gli irriducibili. Partecipa ad alcune forme estreme di protesta, come quella contro il sequestro della corrispondenza non proveniente da familiari molto stretti. Scoppia così lo sciopero della corrispondenza. Millimaggi viene considerato tra i partecipanti «più pericolosi» (p. 70), assieme a Giorgio Amendola e ad altri esponenti di spicco dell’antifascismo confinario. La protesta sembra ottenere qualche risultato positivo, ma ordini tassativi dall’alto impongono alle autorità locali di non cedere ai rivoltosi. Un telegramma proveniente dal Ministero ordina l’arresto di tutti i partecipanti alla protesta (circa un centinaio).
Giovanni Millimaggi è, inoltre, destinatario di un ordine personale di arresto per non aver ottemperato agli obblighi del confino, in quanto, il 31 ottobre del 1933, «non rispondeva all’appello delle ore 11» (p. 71). Viene assolto da questa imputazione per insufficienza di prove. Seguono altre proteste dei confinati, determinate dal sopravvenuto divieto di prendere camere in affitto dai residenti locali e di gestire mense comuni, che vengono affidate d’imperio alla Direzione confinaria.
Nel 1935 Millimaggi viene arrestato per aver8 partecipato ad una protesta collettiva di 300 confinati e trasferito al carcere napoletano di Poggioreale per il processo. Anche qui le brande sono infestate da parassiti. Il Nostro viene condannato a 12 mesi. La pena viene successivamente ridotta a 8 mesi.
Il 26 ottobre 1935 Millimaggi rientra a Ponza e ottiene il ricongiungimento della famiglia. Si rinsalda l’amicizia con Giorgio Amendola, che gli presenta Sandro Pertini. Il rapporto d’amicizia si estende alle famiglie. Maria Cristina Millimaggi, moglie di Giovanni, e Germaine Amendola, moglie di Giorgio, si frequentano anch’esse.
Il 29 dicembre 1936 Giovanni Millimaggi, mentre si trova a Messina, dove viene accompagnato per far visita alla figlia maggiore, gravemente ammalata, viene raggiunto dalla comunicazione che ha finito di espiare il confino inflittogli nel 1933. Ma viene inserito nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze.
A Messina il Nostro riprende l’esercizio della professione di avvocato e i contatti con gli amici antifascisti. Partecipa alle loro riunioni clandestine. In occasione della visita del duce in città, Millimaggi viene condotto cautelativamente in carcere, come prevede la normativa precauzionale che lo riguarda.
Le sue disavventure non finiscono qui. Il 16 giugno 1937 egli viene accusato di attività disfattista e di aver festeggiato il Primo Maggio. Dopo essere stato trasferito nelle carceri cittadine, viene assegnato ad altri quattro anni di confino a Ponza, dove arriva il 4 agosto. Nel 1938 viene accusato nuovamente di aver festeggiato il Primo Maggio e condannato a due mesi di reclusione da scontare nel carcere mandamentale dell’isola.
Il 30 settembre 1938 Millimaggi viene trasferito da Ponza ad Amantea, in Calabria. Anche qui viene raggiunto dalla famiglia. Egli fa propaganda contro la guerra, scoppiata nel 1939, e viene trasferito a Spezzano della Sila. Qui abita nella villa messa a disposizione sua e della famiglia dall’avvocato Fausto Gullo, antifascista calabrese, già deputato nel 1924, la cui elezione venne revocata dal fascismo, e, nel secondo dopoguerra, più volte eletto in Parlamento e nominato anche ministro, varando importanti riforme a favore dei contadini.
Per altri atti di disobbedienza e per scontri con le autorità confinarie, determinati da provocazioni delle stesse nei confronti suoi e di familiari, il 10 ottobre 1940 viene trasferito a Carolei, che rappresenta il periodo di regime confinario più duro per lui, a causa della sua propaganda palese contro la guerra e le sue conseguenze disastrose per il popolo italiano.
L’effetto inevitabile di questo comportamento oltraggioso nei confronti del regime è l’ennesimo trasferimento, questa volta a Venosa, in Basilicata.
Il 15 giugno 1941, in coincidenza con la fine di assegnazione al confino, egli viene prima trattenuto a Venosa come «internato» e poi trasferito, nel 1942, come «sovversivo pericoloso», a Lagonegro (p. 123), sempre in Basilicata. Alla fine dello stesso anno, viene autorizzato a tornare a Messina con il resto della famiglia. Intanto, le condizioni di salute della moglie Maria Cristina si sono aggravate, tanto da determinarne la morte.
L’ulteriore trasferimento previsto a Ventotene, il 22 gennaio 1943, viene revocato, a causa dell’età avanzata, e Millimaggi viene immediatamente liberato, anche se pesa ancora a suo carico un provvedimento di ammonimento.
L’attività intellettuale e politica di Giovanni Millimaggi continua instancabile. Riprende l’attività forense, alla quale affianca quella di docente di Diritto presso l’Istituto Nautico «Caio Duilio» della città.
Egli si accosta da comunista alle idee indipendentiste. Nel marzo del 1943 i figli Libero e Spartaco danno vita al «Movimento Sicilia Libera», d’ispirazione antifascista e repubblicana, che, differenziandosi dal separatismo, prospetta l’ipotesi di una Sicilia indipendente all’interno di una confederazione di Stati. Al movimento, oltre a Giovanni Millimaggi, aderiscono personaggi di spicco della politica messinese, come Umberto Fiore, anch’egli antifascista e comunista. Ma il raggruppamento politico si presenta composito, a causa delle diverse idee politiche dei partecipanti, e, conseguentemente, frammentato. L’idea comune di una Sicilia indipendente, evidentemente, non basta come cemento unitario. Inoltre, esso viene ostacolato dagli anglo-americani, che entrano in Sicilia nel luglio del 1943 e che, dopo aver pensato di esercitare un protettorato speciale sull’isola o, addirittura, ad un’annessione, come cinquantunesima stella degli Stati Uniti, con il sostegno, neanche tanto paludato, della mafia, che favorisce il loro sbarco, si convertono all’idea dell’accorpamento della Sicilia allo Stato italiano, in un rapporto di vassallaggio nei confronti del padrone d’oltreoceano.
Il «Movimento Sicilia Libera» è costretto, dunque, a sciogliersi. Nel 1944 Giovanni Millimaggi fonda il Partito comunista siciliano, che pubblica, il 1° gennaio dello stesso anno, un numero unico, «L’Indipendenza Siciliana», che enuncia il programma: «quello del popolo siciliano che vuole decidere il proprio destino» (p. 130). Questo programma viene ulteriormente precisato in un documento emesso in occasione della visita a Messina della Commissione Centrale Sovietica, che il gruppo dirigente del Partito comunista siciliano non può incontrare, a causa del veto posto dal Partito comunista italiano, rappresentato da Umberto Fiore.
Si legge in questo documento programmatico: «I comunisti siciliani lavorano per la costituzione di una Repubblica siciliana indipendente e democratica, la quale permetta la formazione, con lo sviluppo industriale dell’isola, di un proletariato allineato con il proletariato internazionale per le comuni lotte, le comuni conquiste» (p. 131).
Successivamente il Partito comunista siciliano confluisce nel MIS (Movimento Indipendentista Siciliano), fondato da Andrea Finocchiaro Aprile, avvocato, giurista, docente universitario di Storia del diritto, già sottosegretario del governo Nitti, eletto parlamentare all’Assemblea Costituente.
Giovanni Millimaggi ricopre un ruolo di rilievo nel MIS, tanto che nel primo Congresso Nazionale, svoltosi a Taormina il 20 ottobre 1944, che definisce le linee guida del movimento, si vede assegnata una delle relazioni centrali sul tema: «Organizzazioni economiche e proletarie aderenti al movimento» (p. 133).
Nel 1946 il Partito comunista siciliano si scioglie e molti dei suoi componenti rientrano nelle file del Pci messinese, iscrivendosi soprattutto alla sezione «Antonio Gramsci», una delle più attive della città dello Stretto.
Giovanni Millimaggi, alle elezioni amministrative dello stesso anno, viene eletto consigliere comunale proprio nelle liste del Pci che, con 7.582 voti, ottiene il 15,36% dei suffragi, collocandosi al quarto posto, dopo l’exploit del Movimento dell’Uomo Qualunque (31% dei voti), i partiti conservatori (Pli e Pdl) e la Democrazia cristiana.
Ben presto emergono, però, i contrasti di Millimaggi con il gruppo dirigente della federazione del Pci messinese che portano alla sua espulsione, assieme ad un altro consigliere comunale, nel maggio del 1947, motivata con l’accusa di «frazionismo». Ancora una volta, emerge la componente libertaria del pensiero comunista di Giovanni Millimaggi, che non può essere imbrigliata col «centralismo democratico», che diventa «centralismo burocratico», cioè asservimento del partito al volere di un gruppo di burocrati che si sostituiscono, come élite dominante, al corpo complessivo rappresentato dagli iscritti e dai simpatizzanti, che finiscono per essere privati di ogni potere decisionale.
Giovanni Millimaggi chiede invano un’inchiesta al vertice nazionale del partito sulla sua espulsione e sul modo di operare in generale del gruppo dirigente della federazione messinese, facendo leva sulla propria storia e sul proprio prestigio di vecchio combattente e perseguitato antifascista.
Così completa il suo mandato consiliare fuori dal partito. Muore una mattina di agosto del 1953. Al funerale partecipa una folla numerosa e commossa, che rende omaggio al combattente coraggioso e sempre coerente con le proprie idee di comunismo libertario.
Oggi non basta fermarsi al ricordo di una figura limpida che appartiene al passato. Molti spunti di riflessione ci vengono dal pensiero e dall’opera di Giovanni Millimaggi. Il suo libertarismo e il suo antidogmatismo ci offrono degli elementi per capire la crisi, prima, e il tracollo, poi, dei regimi comunisti dell’Est europeo, che sono stati vittime del burocratismo, dopo la grande fase ideale della rivoluzione, sotto la guida di Lenin e di Stalin, alla quale è seguita la rivincita dell’apparato burocratico, propiziata dall’avvento al potere, nello Stato sovietico e nel partito, di Krusciov, che ha tolto ogni slancio ideale al sistema comunista.
Anche la soluzione indipendentista prospettata da Giovanni Millimaggi merita di essere analizzata e discussa, senza pregiudizi, alla luce degli effetti nefasti del regionalismo burocratico che è prevalso di fatto, in quanto alla Costituzione formale si è sostituita una Costituzione materiale, che l’ha stravolta.
Giustamente Ludovico Geymonat (La civiltà come milizia, Città del Sole, Napoli, 2008) ha rilevato che lo stesso Togliatti ha contribuito a questo stravolgimento con l’amnistia, concessa come Guardasigilli nel governo di unità nazionale formatosi in Italia nell’immediato secondo dopoguerra, che ha lasciato al loro posto i burocrati dell’epoca fascista, che hanno perpetuato i loro metodi e i loro vizi.
Ma lo stesso impianto regionalista in sé è discutibile. Occorre domandarsi se non fosse stato meglio dare all’Italia, sin dall’inizio, un impianto federalista, come proposto da Carlo Cattaneo in contrapposizione a Cavour, che ha imposto l’unità d’Italia sotto il dominio sabaudo, annettendo il Meridione in condizioni di inferiorità.
Anche Gramsci era un convinto federalista, così come Emilio Lussu, Carlo Levi e Silvio Trentin. Naturalmente, costoro erano portavoce di un federalismo di stampo socialista, solidaristico, che nulla ha a che fare con il federalismo egoistico di Bossi e poi di Salvini, che viene portato avanti dopo che il Sud è stato dissanguato delle sue risorse dal Nord, dove l’industrializzazione si è fatta con i soldi di tutti, riservando al Meridione l’offa dell’assistenzialismo e il ruolo di mercato di sbocco dei prodotti industriali provenienti dalle regioni settentrionali e centrali. E allora il pensiero di Giovanni Millimaggi s’inserisce in questo filone fecondo della sinistra italiana, del comunismo e del socialismo non burocratizzati.
Va approfondita anche l’adesione del Partito comunista siciliano di Millimaggi al Movimento indipendentista siciliano di Andrea Finocchiaro Aprile. E’ un’immagine riduttiva e deformante quella che si offre dell’indipendentismo siciliano come succube della mafia. Esisteva una forte componente di sinistra del movimento, rappresentata da uomini come Antonio Canepa, docente universitario di dottrine politiche, capo dell’esercito separatista (Evis), morto in circostanze misteriose, in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, non si sa fino a che punto casuale, come Antonino Varvaro, che poi sarà eletto all’Assemblea regionale siciliana nelle file del Pci, e come lo stesso Giovanni Millimaggi, le cui idee comuniste sono indiscutibili.
Persino Andrea Finocchiaro Aprile, in un discorso pronunciato all’Assemblea Costituente il 19 luglio 1946, delineò una prospettiva rivoluzionaria di tipo social-comunista per la Sicilia.
Il pensiero e l’opera di Giovanni Millimaggi sono, dunque, ancora fecondi e meritano di essere studiati ed approfonditi.
Antonio Catalfamo