Continua la corsa di Antonio Catalfamo (nella foto con Bianca Garufi), scrittore, poeta, docente universitario e critico letterario barcellonese, verso il successo internazionale. E’ uscita la sua nuova raccolta internazionale di versi, in edizione trilingue (italiano, francese, inglese), pubblicata da Genesi di Torino a seguito dell’assegnazione del prestigioso Premio “I Murazzi”, a lui consegnato nel secentesco Palazzo Graneri della Roccia, edificio museale, nonché sede del Circolo dei lettori.
Il titolo è già significativo: “Metamorfosi del mito”. La prefazione, ampia ed approfondita, reca la firma autorevole della Prof.ssa Wafaa A. Raouf El Beih (nella foto), docente ordinaria di Letteratura italiana all’Università Helwan de Il Cairo (Egitto), autrice di importanti studi critici ed affermata traduttrice di opere della nostra letteratura diffuse con larga tiratura in tutto il mondo arabo (e oltre).
La Prof.ssa El Beih è anche autrice di un originale studio sul rapporto tra mito ed eros nell’opera poetica di Catalfamo, da lei presentato come una delle relazioni centrali al congresso internazionale annuale di letteratura italiana organizzato dall’Università di Toronto.
Pubblichiamo per intero, qui di seguito, il testo della prefazione, in quanto rappresenta un contributo fondamentale per comprendere la poesia di Antonio Catalfamo, la sua attualizzazione del mito greco, visto nei suoi echi nel mondo contemporaneo e, segnatamente, nella nostra area geografico-culturale, impregnata di “grecità”.
«Questa nuova raccolta poetica di Antonio Catalfamo, destinata al pubblico internazionale e, per questo, proposta in più lingue, tenendo conto del crescente interesse che si sta registrando anche all’estero nei confronti delle sue opere in versi, così come dei suoi studi critici, è impregnata di mito. E qui è superfluo ricordare ai lettori che Catalfamo è uno degli interpreti più autorevoli di Cesare Pavese, in qualità di coordinatore dell’ «Osservatorio permanente degli studi pavesiani nel mondo», organo interno delle fondazione che è stata intitolata allo scrittore piemontese nella città natale, Santo Stefano Belbo (Cuneo).
Le poesie di Catalfamo, qui presentate, hanno, appunto, come retroterra culturale il mito pavesiano, rielaborato in maniera originale. Il punto di riferimento particolare è rappresentato dai Dialoghi con Leucò e dalle poesie de La terra e la morte, ispirate a Pavese, seppur in assenza di una dedica esplicita, da Bianca Garufi, scrittrice e psicanalista d’origini siciliane. E del contesto mediterraneo, segnatamente siculo, che anima le suddette poesie pavesiane, risentono i versi di Antonio Catalfamo.
Assistiamo, dunque, alla trasposizione del mito nella Sicilia magnogreca, con le sue atmosfere, i suoi colori, i suoi sapori, i suoi odori, la sua civiltà, che affonda le radici nei secoli, anzi nei millenni, rievocando il mondo mitico e reale dei primi coloni greci, con i loro valori, i loro sentimenti, la loro cultura, che ha finito per fondersi con quella dell’isola, dando vita ad un universo unico ed inimitabile, le cui vestigia, anche in termini morali ed umani, oltreché strettamente ideologico-culturali, arrivano fino ai nostri giorni o, quantomeno, agli anni che Antonio Catalfamo intende rievocare nelle sue poesie, a partire dall’infanzia, che assume in lui gli stessi caratteri mitici che ha in Pavese, come età nella quale l’individuo vede per la «prima volta» ed assimila, in una dimensione fiabesca, tutto ciò che poi, da adulto, rivedrà, in termini razionali, una «seconda volta».
E, ancora, in queste poesie di Catalfamo ci sono le donne meravigliose, pur esse con antiche radici greche, che Pavese incontrò durante il confino politico a Brancaleone Calabro, con l’anfora in equilibrio sul capo, come Concia, personaggio presente nel romanzo Il carcere. E c’è la Circe dei Dialoghi con Leucò (opera, anche questa, ispirata da Bianca Garufi: «leucò» deriva, infatti, dal greco «leucòs», cioè bianco), che preferisce agli dei gli uomini per i loro dubbi e le loro imperfezioni salutari, che conferiscono vitalità e assicurano l’imprevedibilità, assente, per converso, nel monotono mondo divino dell’Olimpo, tanto che persino Giove abbandonò il trono olimpico per scendere tra gli umani.
E’ presente in Catalfamo anche l’«ultrafilosofia» ch’egli stesso individua, nei suoi studi critici, in Leopardi, come sintesi armonica tra ragione, sentimento e immaginazione.
Tutto questo retroterra letterario e culturale viene rielaborato in maniera assolutamente originale ‒ dicevamo ‒ nelle poesie di Antonio Catalfamo qui proposte. Le divinità femminili del mito greco assumono le sembianze moderne di ragazze che lavorano come banconiste in un bar di paese, che, con la sua lunga storia e tradizione, fa riemergere nel poeta ricordi d’infanzia che sembravano smarriti. La poesia diventa strumento per rivivere in termini di riflessione razionale l’inconscio, il dimenticato. Queste figure femminili assommano in sé gli echi della civiltà greca e quelli delle altre civiltà che si sono stratificate nella storia, ma anche nella geografia, della Sicilia, in un equilibrio sottile creato dal tempo, dal fluire dei secoli.
Assommano destino di matrice greca e speranza d’origine araba, esprimono la natura in tutta la sua varietà e in tutte le sue contraddizioni, che racchiude in sé razionale ed irrazionale, conscio ed inconscio, caldo e freddo, gioia e dolore, ponderabile ed imponderabile. La poesia di Catalfamo assume qui i caratteri dell’«ultrafilosofia» ch’egli ha attribuito a quella del Leopardi nei suoi studi critici, che superato i luoghi comuni purtroppo consolidati e le letture scolastiche.
Tutta la cultura poliedrica di Antonio Catalfamo converge in questi versi, compresi i suoi studi sulla Scuola poetica siciliana di Federico II e sulla penetrazione dell’averroismo nella letteratura italiana delle origini, veicolato dal trattato De Amore di Andrea Cappellano, da Donna me prega di Guido Cavalcanti, dai versi di Federico II di Svevia, che Catalfamo ha rivalutato anche come poeta, oltre che come sovrano illuminato, e del «notaro» Iacopo da Lentini, oltre che da quelli di Stefano Protonotaro, che il Nostro ha riscoperto. Così la vista della donna genera in lui una «cogitatio immoderata», che investe la donna nella sua dimensione sia carnale che “spirituale”. L’amore viene visto nel contrasto di sentimenti ch’esso genera, come in Guido Cavalcanti, piuttosto che nella dimensione «angelicata» che Dante Alighieri ha trasmesso a gran parte della cultura e della letteratura italiana nei secoli.
E’ presente nei versi di Catalfamo anche l’influenza delle poesie d’amore di Nažim Hikmet, per la limpidezza della forma e dei sentimenti, che pure non cancellano la complessità che ne sta alla base, e di Pablo Neruda, per le forti passioni e la trasgressività, che, però, mai sfocia nella volgarità. Al poeta cileno e alle sue Odi elementari rinviano anche poesie come Ode al panino interclassista.
I ricordi dell’infanzia portano Antonio Catalfamo a rievocare figure di ragazze calabre ch’egli ha conosciuto negli anni remoti in cui il padre insegnava, appunto, in Calabria, e che ora proiettano la loro immagine in donne mature che ridestano i sensi del poeta con la loro persistente vitalità amorosa. L’amore, così come in Ibico, investe, dunque, in Catalfamo tutte le stagioni della vita.
Ma il mito ha per il nostro poeta, così come per Pavese, oltre che una dimensione «regressiva», una dimensione «progressiva». La poesia di Catalfamo è popolata da figure ctonie ed ipoctonie come i satiri, che racchiudono in sé una doppia forza fecondante e distruttiva. Nella prima dimensione si fondono anche con figure simili caratteristiche della realtà siciliana, i fliaci, presenti nelle eponime rappresentazioni teatrali, salaci e triviali, sviluppatesi nella Sicilia orientale tra il IV e il III secolo a.C. Questi personaggi esprimono tutta la loro esuberanza vitale nella poesia di Catalfamo nella versione aggiornata rappresentata dalla variegata umanità d’origini contadine nell’ambito della quale il poeta è cresciuto e della quale si considera il punto d’arrivo, il «biotipo».
La dimensione dionisiaca si traduce in lui in vitalità poetica. E qui occorre ricordare che la tragedia greca, secondo una visione mitica, che rimanda in parte ad Aristotele, nasce nel momento in cui un satiro si distacca dal corteo e dal coro che accompagna le feste in onore di Dioniso ed eleva alto il suo canto individuale.
Sempre nell’ambito della dimensione «prolettica», i satiri assumono le sembianze dei contadini rivoluzionari che Antonio Catalfamo ha conosciuto alla Camera del Lavoro di Bafìa, di cui il nonno e il padre sono stati i massimi dirigenti. Bafìa è un piccolo borgo rurale d’antiche origini greche in provincia di Messina. Il suo nome deriva, appunto, dal greco «bafèus», vale a dire «tintore di pelli» Gli antenati del poeta erano, dunque, pastori e contadini con lontane scaturigini greche, dediti all’allevamento del bestiame, alla concia e alla tintura delle pelli animali e all’agricoltura. Catalfamo immagina, nella trasfigurazione poetica, che i proletari che frequentano la Camera del Lavoro di Bafìa abbiano ereditato la carica distruttiva e insieme costruttiva dei satiri. Così essi hanno distrutto, da un lato, il vecchio sistema di potere semifeudale che dominava il loro paese e, dall’altro, sotto la guida del nonno e del padre del poeta, hanno assunto le redini e sono divenuti classe dirigente. Catalfamo richiama l’immagine che dei satiri ha dato Euripide nel dramma satiresco Il ciclope, ambientato in Sicilia, nel quale essi si ribellano a Polifemo e sostengono Ulisse. Assistiamo, dunque, al connubio tra forza istintiva dei satiri e forza razionale dell’eroe greco.
La fase propulsiva del movimento di riscossa contadina a Bafìa è durata per un lungo periodo, ma, successivamente, per limiti propri dei protagonisti e, nel contempo, per la reazione del vecchio potere, l’ancien régime è tornato, nell’ambito della dialettica tra bene e male, che, secondo un grande siciliano, il latinista Concetto Marchesi, sta al fondo della storia umana.
La raccolta di Antonio Catalfamo contiene, come momento culminante, un inno alla sua Bafìa, ricco di echi culturali che affondano le radici nei secoli».