E’ morto Franco Ferrarotti, padre della Sociologia italiana. Antonio Catalfamo, docente universitario e scrittore barcellonese, che gli è stato amico per lunghi anni e che ha collaborato con lui, ci ha inviato un intervento commemorativo, che pubblichiamo qui di seguito.
Apprendo dai mass-media della morte di Franco Ferrarotti. Aveva 98 anni. Nonostante l’età avanzata, la sua presenza costante nel dibattito culturale, che non sfociava mai nel presenzialismo fine a se stesso, in quanto sempre apportatrice di idee nuove ed originali, spingeva tutti quelli che lo seguivano ed apprezzavano a non abituarsi alla sua dipartita, che fa avvertire un vuoto unanimemente ritenuto incolmabile. Ed egli, fino all’ultimo, ha dimostrato un’enorme vitalità, che ha suffragato le aspettative generali.
Io l’ho sentito alcune settimane fa, allorquando mi ha confermato la sua collaborazione al ventitreesimo volume di studi internazionali su Cesare Pavese, in corso di preparazione, che sto curando, come i precedenti, per conto della Fondazione intitolata a Santo Stefano Belbo (Cuneo) allo scrittore langarolo amico di Ferrarotti sin dai tempi in cui entrambi si trovarono a dover vivere da clandestini (Pavese come precettore presso il Collegio Trevisio e Ferrarotti come precoce «gappista»), dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nell’area compresa tra Casale Monferrato e il Santuario di Serralunga di Crea.
Insieme i due amici ascendevano la salita che portava al luogo sacro discutendo dei grandi misteri della vita, a partire dal significato del mito, in mezzo ad una doppia fila di soldati tedeschi, in cerca di renitenti alla leva e di partigiani da catturare e sterminare, sfidandoli con sottile ironia attraverso il canto del Chorus Mysticus che conclude il Faust di Goethe, a voler dire loro che, accanto alla Germania criminale e razzista di Hitler, vi era quella di Goethe, di Beethoven, di Schiller, che mirava, invece, ad affratellare gli uomini in nome della cultura e della civiltà.
L’amicizia con Pavese si consolidò negli anni a seguire, allorché Ferrarotti fu chiamato a tradurre, per sua intercessione, per conto dell’editore Einaudi, presso il quale il vecchio amico ricopriva una carica di primo piano, libri fondamentali come La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen. E l’illustre sociologo è tra le ultime persone (forse l’ultima) alle quali Pavese telefonò, senza trovarlo, prima di suicidarsi, nell’agosto del 1950, in una camera dell’Albergo Roma di Torino.
Ferrarotti, nei suoi interventi in vari volumi da me curati, ha saputo dare un’immagine di Pavese che sfugge allo stereotipo dell’ «eterno fanciullo», incapace di crescere. Ce lo ha presentato nelle sue contraddizioni, ma anche nella sua pienezza di vita e delle idee creative, nel suo «fare» infaticabile. Ferrarotti era nato a Palazzolo Vercellese nel 1926. Aveva avuto un’infanzia difficile, a causa delle malattie respiratorie e delle difficoltà economiche della famiglia, che aveva superato grazie all’aiuto finanziario e alla guida intellettuale dello zio Leopoldo, alto prelato e uomo di ampia cultura, non solo religiosa. Così aveva imparato a conoscere i classici e a valorizzare gli insegnamenti che ne derivano per i posteri, fino ai nostri giorni.
Si era laureato in Filosofia all’Università di Torino, nel 1949, con una tesi di Sociologia, dedicata proprio a Veblen, rifiutata da Augusto Guzzo, che si era trincerato dietro le resistenze del mondo accademico (ma, evidentemente, anche sue) nei confronti 1di questa disciplina, considerata, sulla scorta di Croce, poco «scientifica» («inferma scienza» l’aveva definita il filosofo neo-idealista), ed accettata da Nicola Abbagnano, il quale stimava tanto il suo allievo da fargli da vice-direttore, allorquando questi, nel 1951, decise di fondare una propria rivista, «Quaderni di Sociologia», poi sostituita, nel 1967, da un’altra, «La Critica Sociologica», ancora attiva al momento della morte di Ferrarotti e da lui diretta con grande slancio, sino alla fine.
Il Nostro aveva vinto nel 1961 il primo concorso del secondo dopoguerra per la neonata cattedra di Sociologia, sorta, dopo le mortificazioni a cui il fascismo aveva sottoposto questa disciplina, quasi cancellandola (se il regime ha risolto tutti i problemi della società, non c’è bisogno di una materia che li studi!), presso l’Università «La Sapienza» di Roma. Ferrarotti ha, inoltre, insegnato in prestigiose università straniere, soprattutto americane, ma non solo.
Ma ha voluto essere (ed è stato) un «accademico anti-accademico», in quanto ha rifiutato la “fossilizzazione” a cui l’università spesso sottopone la cultura, che, invece, per Ferrarotti è continuo incontro-scontro tra idee, se necessario anche aspro, senza il quale essa non può progredire e raggiungere nuovi traguardi conoscitivi. Ha considerato Socrate il primo sociologo, in quanto ha praticato e trasmesso un sapere, per l’appunto, aperto ad ogni apporto, anche quello popolare, valorizzando la «doxa», l’opinione, rispetto all’«episteme» d’ascendenza platonica, che punta su una scienza chiusa in se stessa e nella propria presunta certezza e perfezione, nonché nella propria autosufficienza.
Ferrarotti ha studiato a fondo i meccanismi attraverso i quali il potere si costruisce, si consolida e pretende di perpetuarsi, partendo dal capitalismo nordamericano, che ha costituito il punto di riferimento per tutto l’Occidente. Egli ne ha seguito gli sviluppi, fino alla fase attuale della società informatizzata, digitalizzata ed iperconnessa, di cui è stato il più lucido analista fortemente critico nei confronti dei suoi effetti disumananti.
Ha stigmatizzato i pericoli che caratterizzano il passaggio dalla civiltà del libro a quella dell’audiovisivo. Il libro costringe il lettore a riflettere, a ragionare, a ponderare le varie opzioni. L’audiovisivo colpisce la parte emotiva del cervello, saltando il filtro della ragione. Gli individui sono bersagliati quotidianamente da milioni di messaggi che trasmettono in maniera paludata ordini che essi eseguono in uno stato di «sonnambulismo», che non può essere definito neanche «irrazionale», bensì «a-razionale».
L’individualità, che dovrebbe rappresentare l’unità umana non ulteriormente scindibile («in-dividuum» significa «indivisibile»), si sbriciola come un biscotto e prevale il cosiddetto «effetto gregge». Ciò vale soprattutto per i giovani, che hanno una ridotta capacità critica, e, quindi, costituiscono quello che Ferrarotti, in un suo libro, ha definito «un popolo di frenetici, informatissimi idioti», che sanno tutto e non capiscono niente. I pericoli che ne derivano per il sistema democratico, per i fondamenti stessi della democrazia, sono molto gravi.Ferrarotti, in contrapposizione a questo tipo di società, propone una ripresa di alcuni principi fondamentali della vecchia società contadina. Non si tratta di una prospettiva conservatrice, perché non si chiede qui un ritorno a rapporti di produzione semifeudali, ma il recupero della sostanza umana del mondo contadino, che richiama alcuni principi aurei delle civiltà classiche: «Ne quid nimis» («Niente oltre misura»); «Festina lente» («Affrèttati lentamente»); «Age quod agis» («Fa’ bene quel che devi fare»).
Bisogna riacquisire i ritmi della società contadina, nella quale ogni uomo si muoveva con cautela, avanzava con ponderazione, calcolando i singoli gesti, per evitare le insidie e le asperità del terreno. E’ tutta una dimensione umana del vivere e del pensare che va Ferrarotti ha dedicato grande attenzione al sistema educativo e alla sua interazione con la società, evidenziandone i limiti e le storture. In un’intervista rilasciata di recente (una delle ultime, in ordine di tempo, prima della morte) alla rivista specialistica online «La Tecnica della Scuola» ha definito la società capitalistica attuale «panlavorista» e «cronofagica»: nelle famiglie italiane lavorano entrambi i genitori e non c’è tempo sufficiente per provvedere all’educazione dei figli, che viene delegata alla scuola, in maniera distorta, però. Difatti, spesso si attribuisce alla famiglia il potere di valutare gli insegnanti e ciò determina una forte restrizione dell’autorità che compete agli stessi, nonché, aggiungiamo noi, della loro libertà di insegnamento, sancita dall’art. 33 della Costituzione. Ferrarotti ricorda che «autorità» deriva dal latino «augere», che vuol dire «far crescere».
L’autorità degli insegnanti è indispensabile, per l’appunto, per far crescere i ragazzi. Sottoporli a valutazione, secondo Ferrarotti, significa sacrificare i migliori professori e favorire i peggiori, cioè quelli che assecondano strumentalmente in toto i desiderata di famiglie e studenti, anche quando sono sbagliati. Occorre, allora, un’«autorità» che non sia «autoritaria», bensì «autorevole». Cogliere l’eredità culturale di Franco Ferrarotti significherà dare attuazione ai principi ch’egli ha saputo individuare, rappresentando spesso una voce isolata, non solo nell’ambito del mondo accademico. Non è un caso che i grandi mezzi di comunicazione di massa hanno dato ampio risalto alla sua morte, ma si sono guardati bene dal richiamare le sue critiche penetranti nei confronti della società capitalistica attuale, che vanno, invece, riprese ed approfondite.Ferrarotti non ha proposto un modello rivoluzionario, ma una società a dimensione d’uomo, come quella che immaginava Adriano Olivetti, col quale egli collaborò nella realizzazione del programma del movimento «Comunità» (gli successe come deputato alla Camera nella terza legislatura repubblicana, dopo le dimissioni dell’imprenditore), che concepiva non solo la fabbrica, ma anche tutta la società, come una comunità, per l’appunto, caratterizzata dallo spirito solidaristico, dal rispetto tra gli uomini e nei confronti dell’ambiente. Si parlò allora spregiativamente di «neo-capitalismo» paternalista.
Ma molti di coloro che allora criticarono Olivetti e Ferrarotti successivamente hanno aderito al modello del capitalismo «neo-liberista» ed hanno avuto assegnati dal sistema ruoli di primo piano nell’attuarlo. Ferrarotti è stato, invece, coerente con le proprie idee sino alla morte. Possiamo metterle in discussione in più d’un aspetto, ma esse rappresentano il punto di partenza per una discussione franca che abbia come obiettivo il cambiamento della società in una direzione sicuramente progressiva.